Raffreddamento dei data center: le tecnologie più diffuse e quelle più convenienti - Agenda Digitale

2022-10-14 21:33:18 By : Mr. Tend Manager

L’efficienza energetica dei data center dipende dagli impianti di raffreddamento: in Italia sono molto diffusi i sistemi a espansione diretta, che però utilizzano gas refrigeranti HFC, molto impattanti sull’ambiente. Ecco le alternative con un occhio alla bolletta

Sales Engineer & MDC Expert filiera italiana Datwyler IT Infra

Oggigiorno, qualsivoglia operatore chiamato in causa nella progettazione, nella realizzazione e nella gestione di un nuovo data center è inevitabilmente tenuto a considerare, nelle proprie scelte, due profili divenuti ormai critici e imprescindibili, peraltro strettamente correlati: quello energetico e quello ecologico.

Fortunatamente, la continua crescita della mole di dati da gestire, delle prestazioni delle macchine, delle dissipazioni energetiche, dei costi di implementazione e del rischio d’impatto ambientale associabili ai data center si è accompagnata con lo sviluppo di tecnologie di raffreddamento diverse e via via più efficaci.

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Nel mondo, gli investimenti in data center sono più che raddoppiati nel 2021 rispetto all’anno precedente, passando da quota 24,4 miliardi di dollari del 2020 a 59,5 miliardi di dollari. Questo secondo il report pubblicato dallo studio legale internazionale DLA Piper dal titolo “The meteoric rise of the data centre: key drivers behind global demand”, derivato dalle interviste rivolte a cento alti dirigenti di aziende fornitrici di infrastrutture, di capitale, di debito e di sviluppatori di data.

Per il 2022, il medesimo studio prevede un’ulteriore crescita considerato che, nel primo semestre, sono già stati investiti un totale di 21,3 miliardi di dollari, pari al doppio di quanto speso nello stesso periodo del 2021.

Dal report si evincono tre ulteriori punti chiave:

A livello globale, dunque, gli investitori hanno ormai capito che la gestione dei dati è una necessità imprescindibile che può anche produrre grandi benefici economici.

I dati sopra riportati fanno soprattutto riferimento agli “hyperscaler”, cioè i data center di grandi dimensioni, i quali assorbono la maggior parte degli investimenti e della tecnologia; ma, facendo le debite proporzioni, la medesima prospettiva si può applicare anche al mercato italiano e ai più piccoli data center “on-premise”.

Lo studio evidenzia anche che gli investimenti tengono conto di tre elementi fondamentali: l’ambiente, l’energia e la previsione di sviluppo economico a breve termine. Ciò detto, proviamo ora a concentrarci su un aspetto decisamente rilevante a livello sia ambientale che energetico, inerente all’efficienza funzionale ed economica del data centre, cioè il raffreddamento.

I data center sono strutture fisiche in cui vengono alloggiati grandi server, macchine per l’elaborazione dei dati, gruppi di continuità e apparecchiature a supporto dei sistemi informativi. Sono sale macchine costantemente in funzione, 24 ore su 24, e movimentano ed elaborano enormi quantità di processi e di informazioni digitali.

La necessità di storage di dati online, che vede il suo fulcro nei data center sparsi in tutto il mondo, è destinata ad aumentare negli anni a venire in virtù di un traffico globale in cloud in continua e rapida espansione.

Di conseguenza, consumano grandi quantità di energia e risorse che le organizzazioni più attente cercano via via di ridurre al fine di ottimizzare i costi e raggiungere, contestualmente, emissioni dannose per l’ambiente le più vicine possibili allo zero. Ciò richiede che la progettazione dei data center avvenga in base a stringenti criteri di efficienza, basata sempre più su fonti di energia rinnovabile.

Come si può facilmente dedurre, una delle maggiori criticità associabili ai data center è il calore che viene generato dalle molte e potenti macchine presenti al loro interno: infatti, in presenza di una temperatura eccessiva, il funzionamento delle apparecchiature informatiche viene compromesso, con danni ingenti all’intera infrastruttura. Per questo motivo ogni data center prevede, al suo interno, un sistema di raffreddamento e di estrazione del calore più o meno articolato.

Il consumo energetico – a tal proposito vale la pena ricordare che il calore dissipato dagli apparati IT rappresenta circa un terzo dell’energia complessivamente assorbita – e l’impatto ambientale che derivano dal loro impiego hanno quindi posto la necessità di sviluppare soluzioni di condizionamento sempre più efficaci, tanto sul piano funzionale quanto su quello economico. Proviamo a presentarle una per una, seppur in maniera molto sintetica.

Un sistema a espansione diretta prevede la distribuzione dell’energia frigorifera nei locali che ospitano il data center o direttamente nei rack che contengono le apparecchiature informatiche. Questo attraverso condutture nelle quali non circola acqua fredda, bensì un particolare gas refrigerante (HFC) proveniente da un’unità esterna (motocondensante) dotata di compressore e alimentata elettricamente.

Tale sistema sfrutta il principio fisico dell’evaporazione, il quale assorbe il calore dell’aria circostante abbattendo la temperatura dell’area da raffreddare mediante un evaporatore.

L’aria fredda viene immessa nel data center da sistemi di trattamento e condizionamento nei quali l’acqua refrigerata, fornita da un sistema di raffreddamento esterno alla struttura, viene utilizzata per abbassare la temperatura dell’aria.

Le unità funzionano come i sistemi di trattamento dell’aria ad acqua refrigerata installati nella maggior parte degli edifici per uffici: garantiscono il raffreddamento soffiando aria su uno scambiatore riempito con acqua refrigerata, solitamente fornita da un “Water Chiller”, noto anche come impianto ad acqua refrigerata.

Le unità CW possono regolare la velocità della ventola per mantenere una pressione statica preimpostata, assicurando che i livelli di umidità e temperatura rimangano stabili. La produzione di acqua refrigerata può essere effettuata per espansione diretta o con raffreddatori che sfruttano il “free cooling”, molto più efficienti dal punto di vista energetico.

La crescente densità di potenza e, quindi, di calore dissipato nei data center rende sempre meno efficienti i tradizionali sistemi di raffreddamento ad aria sopra descritti (DX o CW) il cui principio di funzionamento si basa su due operazioni: da un lato raffreddano l’aria, dall’altro fungono da miscelatori, movimentando flussi d’aria in modo uniforme per evitare la formazione di punti caldi. Questo meccanismo dà buoni risultati finché la potenza necessaria per miscelare l’aria rappresenta una piccola parte del consumo energetico totale, mentre in data center con potenze via via maggiori la loro affidabilità tende a decrescere.

In questi casi, un’alternativa più efficiente è quella che utilizza la tecnologia del free cooling diretto o indiretto: quello diretto consiste nell’immettere volumi consistenti di aria esterna, opportunamente filtrati, nei locali da raffreddare.

In questo modo si sfrutta il potenziale delle temperature esterne nelle zone a clima temperato, che consentono il raffreddamento dei locali senza bisogno di aiuti termici da parte di altri mezzi meccanici. Quello indiretto, invece, sfrutta anch’esso il potenziale dell’aria esterna che, però, non viene immessa direttamente nei locali, ma trattata termicamente attraverso una batteria di recupero con l’aria interna che rimane sempre la stessa. Una volta ceduto il calore all’aria esterna, questa viene nuovamente espulsa al di fuori del data center.

Nel nostro Paese la tecnologia di gran lunga più utilizzata, soprattutto nei data center di piccole e medie dimensioni, è quella dell’espansione diretta (DX). Ciò per tre ragioni principali: il minor costo iniziale, la maggior diffusione di competenza tecnica specifica e la semplicità impiantistica. Si tratta, infatti, di soluzioni costituite da pochi elementi e che non necessitano di gruppi di pompaggio.

Tuttavia, alla luce di quanto emerge dal report citato inizialmente e di quanto previsto dalle norme europee (e, conseguentemente, da quelle nazionali), i sistemi a espansione diretta (DX) non dovrebbero essere considerati la prima opzione. Questo perché richiedono l’impiego di gas refrigeranti HFC (idrofluorocarburi), mentre, in tutto il mondo, si stanno introducendo sempre più vincoli e controlli finalizzati alla loro riduzione per via del potenziale effetto negativo che esercitano sul riscaldamento globale (GWP).

Infatti, si prevede l’introduzione del divieto di utilizzo di refrigeranti HFC in Nord America e in Asia-Pacifico da qui a cinque-dieci anni, mentre l’Europa sembra essere all’avanguardia per quanto riguarda l’applicazione di normative restrittive: con l’entrata in vigore, nel 2015, del regolamento europeo dei gas fluorurati (F-Gas, Regolamento UE F-Gas), si prevede il divieto di utilizzo di idrofluorocarburi nelle nuove apparecchiature e in alcuni sistemi specifici (come quelli monosplit con meno di 3 kg di refrigerante) già a partire dal 2026. Tali norme mirano anche a ridurre del 79% l’uso di HFC in Europa entro il 2030, cosa che avrà un impatto diretto anche sul settore dei data center.

Va altresì evidenziato che gli stessi produttori di gas HFC stanno già rivolgendo la loro attenzione verso alternative a minor rischio GWP, riducendo, a tendere, l’offerta attuale a favore di nuove soluzioni meno impattanti di tipo HFO (HydroFluoro-Olefins) che implicheranno, per contro, un aumento dei costi.

Gli effetti della crisi energetica sono sotto gli occhi di tutti, ragion per cui rendere più efficienti – tra l’altro – i sistemi di condizionamento non è più un’opzione, ma un obbligo improrogabile.

Secondo uno studio della Fondazione Politecnico di Milano, un data center di grandi dimensioni dislocato in un unico edificio può arrivare a consumare 3.000 kilowatt (un valore assimilabile a quello di 1.000 appartamenti residenziali), mentre per il data center di una piccola/media impresa si può stimare un assorbimento tipico nell’ordine 300 Kilowatt.

Nel nostro Paese si presume siano attivi circa 3.000 data center con un consumo totale di energia nell’ordine di 1 gigawatt, pari al 2% circa del consumo nazionale totale.

Una delle maggiori voci di spesa relative ai data center – che incide per il 30% circa – è appunto quella riconducibile al sistema di raffreddamento, deputato a mantenere una temperatura costante degli ambienti compresa tra 20 e 27 °C sia d’inverno che d’estate. È perciò evidente che la scelta della più idonea tecnologia di raffreddamento ha assunto un’importanza decisamente strategica.

L’incremento di densità dei carichi termici da smaltire ha condotto anche a un’evoluzione del layout delle sale: oggi i rack che contengono i server sono tipicamente disposti in corridoi. In particolare, la compartimentazione di questi ultimi ha portato a un aumento delle temperature di mandata ai server e di ritorno alle unità di condizionamento. Questo tipo di disposizione ha permesso di raffreddare la zona interessata solamente nei punti in cui è davvero necessario farlo e ha ridotto le perdite dovute alla miscelazione dell’aria stessa.

Per quanto concerne, invece, i centri di calcolo di piccole dimensioni (mini data center) il ricorso a sistemi completamente chiusi, con circolazione dell’aria fredda contenuta all’interno dei rack, aumenta ulteriormente l’efficienza dell’impianto.

Il sistema di raffreddamento libero degli ambienti va a sfruttare la sola differenza di temperatura con l’ambiente esterno, vale a dire l’entalpia. Pertanto, un impianto per free cooling non necessita di un sistema di refrigerazione particolare, ovvero di macchine preposte a favorire lo scambio termico: esso, infatti, sfrutta la temperatura naturale esterna senza alcun impiego di energia elettrica. Da qui un immediato impatto molto positivo sul risparmio energetico e, quindi, sulla bolletta.

Adottare questa tecnologia, laddove il clima lo consente, presuppone un investimento iniziale più elevato rispetto a quello richiesto dai sistemi a espansione diretta o ad acqua refrigerata senza free cooling, ragion per cui viene spesso scartato stante la diffusa miopia nel valutare i ritorni economici nel lungo termine.

Di seguito un esempio di calcolo che, auspicabilmente, riuscirà a far meglio comprendere il potenziale anche economico di questa tecnologia.

Si può notare che, a fronte di un sistema DX da 30 kW che prevede un consumo ininterrotto di energia per 12 mesi, in un Paese come la Germania si può beneficiare della tecnologia free cooling indiretto per oltre 9 mesi l’anno, con un risparmio di oltre 2/3 dell’energia consumata da un sistema DX. Tutto ciò con un investimento iniziale di 19.000 euro aggiuntivi, ammortizzabili in circa 18 mesi in più rispetto al sistema a espansione diretta.

Nell’ultima colonna a destra, invece, troviamo le prestazioni di un sistema per free cooling indiretto che utilizza chiller di ultima generazione ad acqua (R718) con, naturalmente, impatto ambientale nullo a fronte di un GWP di 2.088 relativo a un sistema DX con gas R410A. La differenza di costo iniziale sale a 34.000 euro, ammortizzabili in 30 mesi in più (senza incentivi pubblici), a fronte, però, di un risparmio energetico del 72%. Tutto ciò considerato un costo – sempre più ottimistico – di 0,30 euro/kWh.

Come se non bastasse, nella comparazione appare evidente anche la forte riduzione dell’emissione di anidride carbonica nell’ambiente: infatti, adottando un sistema per free cooling si possono evitare più di 90 tonnellate di CO2 in 5 anni.

Le abitudini nazionali, caratterizzate da una netta prevalenza di sistemi a espansione diretta (DX), sembrano radicarsi in un approccio mentale orientato alla semplicità e al vantaggio economico immediato, mentre in altri Paesi europei di riferimento hanno preso piede soluzioni più efficienti (CW e free cooling), più costose nella fase iniziale ma più economiche nel medio/lungo termine, a beneficio tanto dei loro possessori quanto dell’ambiente.

In ogni caso, il destino della tecnologia DX, per come la conosciamo oggi, sembra essere segnato: le incombenti restrizioni all’impiego di gas HFC costringeranno i suoi sostenitori a optare per sistemi più evoluti, come quelli basati su composti organici insaturi (HFO), comunque più costosi, o quelli ad acqua refrigerata o per free cooling precedentemente descritti.

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